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Riccardo Riccò espulso dal Tour 2008 |
Chiedo scusa ad Angelo Zomegnan, direttore del Giro d'Italia a cui avevo riservato diverse critiche per il mancato invito alla squadra di Riccardo Riccò (allora la Ceramiche Flaminia) al Giro d'Italia 2010. Scrissi che si trattava di un evidente errore, una disparità di trattamento inspiegabile tra Riccò e altri atleti che avevano finito di scontare la loro squalifica (Basso in primis) e che quindi potevano tornare a gareggiare nella corsa rosa. Zomegnan sostenne che "Riccò deve dimostrare di essere tornato pulito...". Una frase sibillina, ma che letta col senno di poi spiega molte cose. Ammetto che il modo di correre spavaldo e spettacolare di Riccò mi piaceva molto. Speravo, da grande innamorato di questo sport, di vedere il Cobra di Formigine duellare con Basso, Nibali e gli altri ciclisti più forti sulle rampe del Giro. Un'illusione. Riccò è sempre stato un ciclista chiacchierato e la fine della sua carriera dopo - stando alle parole del dottore che lo ha soccorso all'ospedale - un autoemotrasfusione andata male dimostra che quanto fatto vedere in questi anni dal modenese era qualcosa di poco limpido. Una presa in giro, un'illusione, appunto. Ad un passo dalla morte, si legge nelle agenzie e nei principali quotidiani, Riccò ha scelto di continuare a vivere, confessando lo squallido tentativo di migliorare le sue prestazioni.
C'è da capire cosa spinga un atleta, ma prima ancora un uomo - padre di una bimba di pochi mesi - a perseverare, anche dopo una lunga squalifica, in questa truffa. Per comprendere appieno questa "follia inarrestabile", pubblico parte di un articolo di Eugenio Capodacqua di Repubblica (clicca qui per leggere tutto l'articolo), uno dei più attivi e intransigenti cronisti nella lotta al doping. Un pezzo che descrive magistralmente questo perverso meccanismo.
"Quello di Riccardo Riccò è il dramma di un ciclismo che non sa o non può uscire dalla spirale della farmacia proibita. E siamo all'assurdo: l'autoemotrasfusione fai-da-te. Provate un po' ad immaginare il percorso: ti infili un ago in vena (da solo), lo colleghi ad una sacca per il sangue, stai lì una buona mezz'oretta per riempire il recipiente. Poi metti la sacca in frigo. La conservi. Quindi all'occorrenza nell'imminenza degli impegni sportivi fai l'operazione inversa. Con tutti i rischi annessi e connessi: primo fra tutti lo choc anafilattico e i danni renali, come sembra sia stato nel caso dello scalatore di Formigine. "Una follia, uno schifo, una cosa da vomito", raccontava poco tempo fa un tecnico che ha seguito come esperto numerose indagini di Nas e Finanza. Una follia cui si è arrivati perché ormai il meccanismo è inarrestabile, checché ne dicano i dirigenti del ciclismo mondiali e nazionali che oggi sbandierano una lotta forse per la prima volta determinata, ma certamente tardiva. Perché la spinta al doping viene dal basso e per un corridore che viene pizzicato altri 100 la fanno franca. Non si può dire, come ha fatto tempo fa il capo della Procura antidoping del Coni Ettore Torri, che siano "tutti" dopati" ma se si mette un "quasi" davanti non si va lontano dalla realtà. E non è che in altri sport di vertice la situazione sia molto diversa nella sostanza. Sono i ritmi asfissianti di calendari insostenibili che obbligano al "trattamento". Nel calcio, ad esempio, si gioca quasi ogni due giorni quando la fisiologia consiglierebbe di riposare almeno per tre. L'atleta è una macchina da prestazione. Prestazione, risultati, cioè soldi, cioè fama. E così si rischia. La salute in primis, la radiazione in caso di recidiva poi. Come per Riccò, già squalificato per epo (20 mesi), che ha vissuto da sempre con una nuvola grigia sul capo. Dubbi e ombre gravano da sempre sul capo dello scalatore di Formigine. Da quando ancora juniores (2001) fu fermato per ben due volte per i valori ematici fuori norma. Problema risolto nel momento in cui passato alla corte dello svizzero Gianetti approdò ad una provvidenziale certificazione da parte della federazione internazionale che ha garantito la credibilità dei suoi parametri elevati oltre la media.
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Aldo Sassi con Riccò |
Restano molte domande da chiarire: per quanto crudo e duro uno possa essere è una follia pensare che un individuo possa farse un prelievo di sangue da sè, metterlo in frigo, conservarlo e poi reinfoderselo. Ha fatto tutto da solo Riccò? E nessuno in famiglia si è accorto della sacca? E medici e tecnici che avario titolo ronzano attorno ad un atlteta professionista della fatica non si accorgono di nulla? (...)
Si scontano e si pagano oggi anni di trascuratezza e di sottovalutazione, per non dire peggio. Il nostro paese ha avuto tra la fine degli anni '80 e il principio del '90 una vero e proprio doping di stato in cui alcune federazioni sportive finanziavano medici discussi, laboratori e strutture in giro per il Bel Paese per inseguire medaglie e vittorie che giustificassero il carrozzone da oltre 450 milioni di euro l'anno, oggi tutti a carico del contribuente, perché gli emolumenti dello sport sono nella legge finanziaria. Si sconta e si paga il disinteresse per le categorie giovanili dove i controlli sono inesistenti e dove i giovani arrivano a 17 con una "cultura" del doping acquisita, consolidata e irreversibile. Vedi il caso Bani, positivo alla gonadotropina corionica, un ormone femminile, addirittura. Un ragazzo che ha accusato la società sportiva di doparlo a sua insaputa. E i dirigenti di questa società sono ancora in attesa di giudizio, liberi di continuare a far gareggiare altri giovani, magari con la stessa filosofia. Si sconta la trasformazione dello sport da palestra di valori a valore economico puro e semplice: business, sponsor e spettacolo. Se poi qualcuno rischia di morire non importa. Si può morire di sport. Perché la follia - Riccò docet - è ormai pressoché senza argini. E oggi, probabilmente, neppure il morto di turno cambierebbe la situazione. E' già successo".
Oramai è uno sport ridicolo. Non c'è più una goccia di credibilità. Semplicemente game over.
RispondiEliminaMichele