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Tomaso Rodati in azione |
Pubblico ora con grande piacere l'articolo scritto per Blog-In dentro lo sport da Tomaso Rodati, alla sua prima, straordinaria esperienza da maratoneta. La Venice Marathon 2010 descritta dal suo interno. Un mix di fatica, gioia, dolore ed emozioni. Un racconto intenso, emozionante. Un grazie a Tomaso per il bel regalo e tanti complimenti per la sua impresa personale.
42.195 metri. La maratona. La prova atletica più mitica e più dura dove nulla si può improvvisare: allenamenti costanti, alimentazione corretta, preparazione mentale che non prevede la resa: si può rallentare ma fermarsi è vietato.
24/10/2010, stazione di Mestre, ore 07.00: centinaia di atleti con la sacca del cambio-vestiti in spalla aspettano di imbarcarsi sui bus messi a disposizione dall’organizzazione per arrivare fino alla zona partenza, a Strà, davanti a villa Pisani, capolavoro della Riviera del Brenta, una tra le destinazioni della “villeggiatura” appunto dei nobili veneziani. Una mezz’oretta di sballottamento, come ai tempi della scuola, è necessaria per raggiungere il mega tendone spogliatoio. Ho la fortuna di essere sul primo mezzo. Mi giro. Una marea multicolore e multietnica mi segue gioiosa. L’entusiasmo e l’adrenalina salgono.
Trovo, casualmente, tra i 7000 iscritti, un mio amico conosciuto in vacanza. Lui è un veterano. Io un esordiente. Chiedo consigli e ascolto i suggerimenti. Ci cambiamo e usciamo per consegnare la sacca dei vestiti che ritroveremo all’arrivo. Lui è un medico. Per proteggerci dal freddo di una mattinata di fine ottobre ci mascheriamo: io con una tuta in carta da pittore, lui, medico, con un completo da sala operatoria. I fotografi dell’organizzazione ci notano. “Due così bisogna beccarli subito, mettetevi in posa”. Foto.
Ci dividiamo alla partenza. Lui, il veterano, ha un tempo di gara necessario e sufficiente per entrare in una gabbia (il “settore” in cui vengono divisi i partecipanti) migliore della mia. Io, l’esordiente, sono nell’ultima. Non vedo neanche lo start. Ma non mi interessa. Ormai sono qui e non mi fermo. Mi giro e vedo un sacco di persone. Di tutte le razze. Un solo punto in comune: il sorriso. Anche se tutti siamo consci della fatica che ci aspetta. Guardo un po’ dietro a me e vedo 6 ragazzi pronti a spingere la carrozzina di una ragazza loro amica. Il primo magone della giornata.
Si parte. Dopo 6 minuti passo sotto lo striscione del “VIA”. Avvio il Garmin e vado. Ogni metro percorso è un metro in meno verso la meta. Mi godo i primi applausi e i primi incitamenti.
Al Km 6 vedo il primo ritirato. “Dai! Prova ancora!” penso. Invece no. Un addetto della protezione civile (i nostri angeli) gli ha già messo il suo giubbino sulle spalle per evitare che si raffreddi troppo velocemente. Continuo. Mi guardo attorno. Danesi, austriaci, inglesi, canadesi, italiani, giapponesi. Tutti uniti dalla fatica e dalla corsa verso la Serenissima. Al km 10 rallento leggermente. Devo bere e devo assistere alla scena di una ragazza giapponese che si è fatta immortalare assieme ad un alpino. La penna ha sempre il suo fascino. Sorrido e proseguo.
Dalle gambe e dal corpo arrivano ottimi segnali. Sto seguendo la mia tabella dei tempi. Passo per Mira e so che lì ad aspettarmi ci sarà il primo dei miei amici dislocati lungo il percorso. Lo vedo. E’ in piedi sopra un muretto per farmi una foto. Sorrido. Ce la faccio ancora. Vorrei ringraziarlo ma non posso fermarmi. Mi aspettano a Venezia…
Le buone sensazioni fisiche continuano. Arrivo a Mestre. 23-25 km sono già stati macinati. Ci sono altri amici ad aspettarmi. C’è anche Veronica. La figlia di una di loro. 4 anni e già una peperina. Vedo lei e la mamma. Si sporge oltre le transenne per applaudirmi. Le sorrido, le do un 5 e le dico grazie. Dietro gli occhiali scendono delle lacrime. Mah. Chissà cos’è?
Altri amici dopo qualche chilometro. Vado ancora bene e loro me lo confermano. Urlano e applaudono. Io ringrazio, rido e piango. Sta succedendo ancora.
Arrivo al Parco S. Giuliano. Uno dei polmoni verdi di Mestre. Lì c’è il muro dei 30 km. Se lo superi ci sono buone possibilità di arrivare al traguardo. Il mio corpo sente la fatica. La caviglia destra, slogata a un mese dalla gara in una sciocca partita a basket, recrimina il suo diritto al dolore. E’ qualcosa di pungente. Una lama che gira attorno al malleolo. “Eh no cavolo. Non mi fermo.” Rallento. Il dolore passa. Riprendo a correre. Ancora la lama. Cammino. Corro. Di nuovo il dolore. La mia capacità di corsa diminuisce. Nel frattempo inizia il ponte della Libertà. 4 km di rettilineo che collegano Venezia alla terraferma. Ci vuole concentrazione per affrontarlo. Cerco di riprendermi. Corro e cammino. Cammino e corro. Mi affianco a 2 ragazzi che procedono ad andatura di marcia. Scopro che questo è un ritmo che riesco a reggere. La mia tabella dei tempi però sta saltando. A questo punto voglio finire.

Nonostante tutto il nostro gruppo aumenta l’andatura. Dalla marcia passiamo alla corsa lenta. L’adrenalina e le endorfine liberate dal cervello stanno facendo il loro dovere. Il dolore diminuisce man mano che il traguardo si avvicina. Ricomincio a correre. Ultimo ponte. Rettilineo finale. Vedo Micol, la mia ragazza. Ancora lacrime. Passo sotto il traguardo. Finita. Ce l’ho fatta. Sono un maratoneta. Recupero i miei vestiti ed esco dalla zona riservata agli atleti.
Cerco la mia compagna che mi ha sopportato e mi è stata vicina in un anno difficile, non solo per la durezza degli allenamenti. Con lei mi sciolgo e piango singhiozzando come un bambino. Una signora vicina mi guarda e, forse, non capisce.
Ho corso per 42 km. Sono sfinito e cammino con difficoltà. Ho vissuto una giornata intensa e faticosa. Densa di sensazioni positive. Ho visto tante persone come me e, nonostante tutto, siamo persone felici. E tutti siamo già impazienti di rivivere al più presto le stesse sensazioni che ora ci stiamo beatamente gustando.
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